sabato 5 dicembre 2009

Maurizio Armellin Faces & Still Life





























Spazio Arte Gellius "I Sensi dell'Arte"

Titolo mostra: Faces & Still Life

Artista: Maurizio ARMELLIN

Vernice: sabato 12 dicembre ore 18.00

Catalogo in galleria

Introduzione critica di Fulvio Dell'Agnese

Sede: Oderzo, Calle Pretoria 6

PHONE +39 0422 713577

E-MAIL: ristorante.gellius@tin.it

WEB: www.ristorantegellius.it www.armellinmaurizio.blogspot.com

Periodo: 13 dicembre 2009 - 14 febbraio 2010

Orario: da martedì a domenica dalle ore 10.30 alle 21.30

lunedì chiuso








HILAROTRAGOEDIA CULINARIA introduzione critica di Fulvio Dell’Agnese


«L’opera della mia vita è stata di “vivere” l’opera d’arte, di girarla e rigirarla sul palato del mio spirito...». Bernard Berenson, 1948

Mordono.

Alla fine non ce le mise, ma le tele che Mark Rothko aveva preparato per le pareti del ristorante Four Seasons, nel Seagram Building di New York, erano state immaginate come una versione aggressiva, animata quasi da un ringhiare sordo, dei suoi “vuoti pulsanti”, costretti in insoliti formati verticali. Per lui dovette trattarsi di una forzatura, legata d’altronde alla necessità ineludibile di dirigere tramite i dipinti la percezione complessiva di uno spazio che sfuggiva ai parametri di disponibilità meditativa con cui normalmente si confrontava.

Ciclopi ed Alieni di Maurizio Armellin non hanno invece bisogno di sfoderare i denti per l’occasione; le sue creature, digrignanti di natura, prendono semplicemente possesso delle pareti, con disinvoltura, esattamente come noi ci possiamo accomodare al nostro tavolo, e spalancano i loro occhi – chi uno, chi quattro… – senza fissare qualcosa in particolare. Certo, sembrano nate apposta per stare a tavola: alcune di esse hanno capelli a ciocche acuminate come rebbi di forchette, fauci che sonoramente ci proiettano al momento in cui pure sul loro desco faranno comparsa i pacchetti di grissini. I colori smaltati si compongono nei volti con la stessa nettezza di isolate epifanie commestibili in un piatto di nouvelle cuisine. E non stupisce che i rilievi delle loro fisionomie, tradotti in volume come accade nelle più recenti evoluzioni che Maurizio sta sperimentando, sembrino assumere la forma di un tagliere, sul quale globi oculari, nasi e labbra slittano come le verdure sul ripiano di formica su cui un tempo osservavo saettare il coltello da cucina e la triturante mezzaluna della nonna. Eppure siamo agli antipodi degli edibili assemblaggi ritrattistici di Arcimboldo. Tutto nasce da una stilizzazione grafica che aggira i terreni cedevoli della descrizione, per mantenersi nell’evidenza della pura forma, di un colore privo di sfumature che al massimo si concede a una grossolana puntinatura o all’astratta leggerezza di accumuli in pencolanti stratigrafie, come nella Natura con cane.

Scopriamo così che i “mostri” di Maurizio, capaci d’altronde di presentarsi con tanto di piercing ed orecchino, come gli dei del mito abitano un mondo in tutto e per tutto simile al nostro, fatto di caffettiere e tostapane, di macinini e interni di cucina, in cui però il frullatore può spiccare il volo sui suoi piedini di gomma – con l’unica possibile elica invischiata nel frappé – e librarsi su Madrid come certi Angeli fanno sopra Berlino. Un mondo allegro ma non per questo semplice, in cui il tostapane abbaia più del cagnolino sotto il tavolo, in cui le piante grasse estrudono con veemenza le proprie spine e le maschere dai tratti grotteschi sono comunque segno della presenza di una qualche inquietudine da esorcizzare. Entità di per sé giocose, vanno nondimeno tenute sotto controllo; come le creature delle grottesche del Cinquecento, coinvolte in allucinate proliferazioni di corpi, germogli e membra animali, esse vanno confinate entro recinti visivi, rinchiuse entro dei margini, che nei lavori di Armellin troviamo segnati da un tratto deciso, ma al tempo stesso «irregolare, erratico, non alieno dalle colpevoli delizie dell’approssimazione; imprevedibile a sé medesimo»1 secondo un criterio di vigile libertà che in Joie de vivre sembra denunciare più apertamente quanto lo sguardo si sia intrattenuto sulla sapiente leggerezza di Klee e Matisse.

Uno sguardo, dunque, sereno, che con freschezza primitiva si posa sugli oggetti ed evoca le figure senza comunque risparmiare loro le cuciture che – come in un pupazzo – fissano occhi e labbra, senza spianare i «granuli dogliosi» che ne segnano la pelle. Tanto che ad un poeta visionario potrebbe venire il dubbio che per l’artista «la massa corposa delle cose, il tangibile universale, sintattico, renitente e diverso, altro non sia che detta granuleria versata e rappresa in formelle, e in queste concotta ad effimera consistenza, e intinta in anilina di anima o retorica»2. Ad andare in scena, nelle “formelle” prive – per ora – di fisico spessore attraverso cui Armellin conduce la sua operazione, è insomma la commedia della vita, allusa attraverso le immagini dei suoi simbolici attori e dei suoi ambienti. La loro bellezza consiste in larga misura nella loro inattendibilità, ovvero nello sforzo – che accomuna artista e spettatore – di smarrire sotto una vitrea glassa di colore i lati meno ilari del “dramma” quotidiano, dopo che se n’è acquisita coscienza. E allora, se di un gioco di finzioni si tratta, al suo regista può scherzosamente attagliarsi il plauso che va riservato al poeta “fingitore” che si nasconde in ognuno di noi, nell’umano bisogno di distogliere lo sguardo dall’abisso, dall’occhio del ciclope, e di velarlo di spensieratezza; e nel meno comune talento di non cadere da questa nella superficialità: «Onore a costui: […] giunto sul fondo, sarà lui il raccontatore più ilare e improbabile. Un cantafavole; un affettuoso; un bugiardo»3.


Pordenone, 25 novembre 2009


1 G. Manganelli, Hilarotragoedia, Milano, Adelphi, 1987 (1964), p. 81.
2 G. Manganelli, Hilarotragoedia, cit., p. 28.
3 G. Manganelli, Hilarotragoedia, cit., p. 81.